Abbiamo chiesto a Darwin Pastorin, giornalista e scrittore ma soprattutto amico e collega, di tratteggiarci un ricordo di cosa ha rappresentato per lui, per il giornalismo e per tutte e tutti noi Gianni Minà.
Gianni Minà ci ha lasciato a ottantaquattro anni, ai primi vagiti di primavera, quando Roma comincia a vestirsi di retaggi e meraviglie. Resteranno per sempre il suo esempio, la sua dignità, la sua curiosità, le interviste ai grandi e agli umili della terra, con l’unico rimpianto di non aver mai incontrato Nelson Mandela. Ritroveremo, sempre e per sempre, nelle sue pagine, nei suoi filmati, quel senso, così alto e così nobile, del saper ascoltare: e con lui, da Fidel Castro a Diego Armando Maradona, da Gabriel Gárcia Márquez a Muhammad Ali, tutti si si sentivano a proprio agio davanti a quel cronista capace di scavare nel cuore, nella nostalgia, nei rimpianti.
Gianni seguiva l’invito indicato dal suo amico Luis Sepúlveda: raccontare è resistere.
Ma non scordava, nei suoi servizi, gli ultimi, gli emarginati e gli invisibili, soprattutto le donne e gli uomini sfruttati e ribelli dell’America Latina, quel “Continente desaparecido” che lui ha amato come pochi altri, alla perenne ricerca di scovare la luce della speranza nel fango del dolore, pronto a denunciare gli orrori delle dittature: nel 1978, al Mundial dell’Argentina, dove in uno stadio si giocava e in un altro venivano torturati gli oppositori di quell’infame regime, venne espulso dai generali per aver chiesto, durante una conferenza stampa, al responsabile dell’organizzazione della Coppa e capitano di vascello Carlos Alberto Lacoste notizie sui desaparecidos.
È sempre stato così, Minà: non si tirava mai indietro, aveva la schiena dritta, si gettava nella mischia con la determinazione di un boxeur latino
come dal titolo della sua autobiografia, pubblicata nel 2020 Minimum Fax, grazie alla passione dello scrittore Fabio Stassi.
Figlio di siciliani, Minà è nato e cresciuto a Torino, diventando tifosissimo dei granata. Ha cominciato la carriera a Tuttosport per poi diventare uno dei grandi inviati e conduttori della Rai. Per noi giovani apprendisti giornalisti era un punto di riferimento vitale, una stella cometa: ho avuto l’onore e la felicità di partecipare ad alcune sue trasmissioni per parlare di calcio e letteratura, di calcio e politica. Di una foto andava orgoglioso: quella che, in una trattoria romana, lo ritraeva insieme a Sergio Leone, Gabriel Gárcia Márquez, Muhammad Ali e Robert De Niro.
Massimo Troisi, durante una diretta tv, rese pubblica l’agendina telefonica di Gianni: dove dalla A alla Z potevi trovare tutti, ma davvero tutti. Ed erano i tempi del telefono fisso, dell’assenza di social.
Minà è stato mio direttore a Tuttosport dal 1996 al 1998, volendomi come suo vice. Un’esperienza innovativa, onirica, affascinante, dove ritornavano le storie, scendevano in campo con noi Eduardo Galeano e Osvaldo Soriano e la cantante Mina si occupava di boxe. Gianni amava scrivere a mano, lunghi articoli che, quando tornava a Roma, dettava ai dimafonisti. Riflessioni sullo sport inteso come metafora dell’esistenza, su quella impresa storica, su quella memoria recuperata, da Nino Benvenuti a Pietro Mennea. Mi chiamava in redazione ed era l’inizio dell’avventura: “Darwin, prima di parlare del giornale ti passo Stefania Sandrelli”; “Sono con Shel Shapiro, te lo passo”, “Eccoti la figlia del Che”.
gianni Minà amava portare le scarpe da ginnastica: “Perché per fare questo mestiere bisogna sempre continuare a camminare e a correre”. E lui, con le scarpe da ginnastica, riusciva sempre ad andare, come il suo adorato Fabrizio De André, in direzione ostinata e contraria.
Il mio abbraccio va alla moglie Loredana, splendida regista, e alle figlie.